martedì 23 settembre 2014

Piano piano ritorno

museo do chiado - lisbona
Museo do Chiado - Lisbona
Non so che albero sia.
So che l'anno scorso l'avevano potato e per un attimo ho temuto che non mi avrebbe più riparata dagli sguardi delle case di fronte, me, che amo vivere con la finestra aperta.
Eppure quest'anno sembra avere ancora più foglie, ancora più rami.  
Il vento lo incalza, poi fugge via e corre fino a me, mi rinfresca la fronte, si posa sul tavolo. Lui ha capito.


Ho avuto bisogno di fermarmi.
Di appoggiare la penna sul foglio e guardare fuori dalla finestra.
Di bloccare occhi, pensieri e voce.
Vorrei fosse facile farlo – essere davvero solo un animale, dal respiro visibile, sotto le costole.
Avere sempre parole per le cose richiede abilità che non mi sono state donate, una parlantina che mi manca, un'opinione vispa e vigile che non teme giudizi.
Io per le cose ho molto più spesso silenzio.
Non ho trovato altro modo per esprimerlo se non stare zitta. Fare spazio dentro la testa. Scegliere cosa dire. Scegliere di non dire.
Emotion recollected in tranquillity.
Questa frase me la ripeto in ogni diario, da quando l'ho letta la prima volta. Avevo 18 anni. E le emozioni da raccogliere sono così tante, per me che sono emotiva quasi per definizione.

il fiume
Riprendere in mano la penna, alla fine, è sempre divertente. Ma richiede un infinito senso di responsabilità che per un certo periodo non ho sentito di avere, o ho avuto paura di perdere. Il blog è uno svago, un parco in cui passeggiare in compagnia di nuvole e piccoli animali in una giornata di primavera, ma il cervello da cui, a minuti alterni, parte l'impulso di aggiornarlo o cestinarlo no, non lo è. O non lo è sempre.
Si chiede cosa abbia senso dire, quale sia il ruolo delle parole, quando cascano addosso a centinaia di altre parole e si mescolano e perdono di senso.
Perché debba parlare del merlo sul davanzale e non di ciò che mi indigna, perché debba nascondere le mie opinioni sotto il tappeto o perché debba ritenermi anche solo vagamente meritevole di esprimerle, queste opinioni che nessuno mi ha richiesto.
Questo mi domandavo. E il silenzio era d'obbligo. 

Non che ora abbia realmente capito: i dubbi su cosa sia giusto o non giusto fare continueranno ad assillarmi, la paura di coprirsi di ridicolo o di non essere davvero utile a nessuno continuerà ad afferrarmi le dita mentre queste si gettano a capofitto sulla tastiera, con questa loro brama di dire, dire, dire.
E forse sono i dubbi di chiunque si trovi ogni giorno a che fare con questo bisogno, reale o indotto, di raccontarsi e condividere e mostrare: le foto delle vacanze, la tazzina al sole, quel ricciolo che ti cade così bene sulla guancia, l'aneddoto che ti ha fatto scompisciare, le chiacchiere con la tua amica. Sono quelle azioni che ormai porti avanti per abitudine, per normalità, ma che si incrinano non appena capita qualcosa di grave, di pesante, che davvero te le toglie, le parole e la voglia di dirle. 
Poi si ricomincia. Ricomincia sempre tutto, alla fine. 

Ora che alzo la testa, mi accorgo che il tempo si è calmato: il vento ha smesso di scappare. L'albero cattura il mio sguardo come sempre: è rigoglioso, leggero e forte, una casa per tutti i pensieri che oggi mi sono scivolati via.
Magari adesso respiro di nuovo.

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