domenica 29 settembre 2013

In colonna

Io non sono mai stata il genio della matematica. 

Un momento: chi mi ha conosciuta alle elementari e alle medie potrebbe forse affermare il contrario – ero in effetti piuttosto bravina - ma siccome la maggior parte della gente che frequento ad oggi ha avuto a che fare con me dai 15/16 anni in poi, sono davvero sparuti gli individui che possono avere di me un tale roseo ricordo. 
Chiunque sia venuto a contatto con la sottoscritta a tal punto da arrivare a parlare di numeri – che ne so, in coda per il gelato – sa che si tratta di un mondo a me poco affine, eccezion fatta per le cifre che compongono le date di compleanno. Comunque, per rispetto a quella ragazzina che ancora si sporcava le mani di calcoli, riprendo la frase d'inizio in maniera più corretta, dicendo che: 
Da una decina d'anni e poco più, non posso certo considerarmi il genio della matematica. 
Non so onestamente cosa mi abbia spinto a decidere di abbandonare i numeri e tutto ciò che ad essi è correlato. 
Forse il fastidio stesso che mi suscitavano i tomi che ci erano toccati in sorte alle superiori, con quelle pagine lucide – lucide!!! come si può, mi dico, anche solo tentar d'immaginare libri con le pagine lucide! - sulle quali la matita emetteva stridori di sofferenza, mentre sbiaditi insiemi di Eulero-Venn tentavano di richiamare la mia attenzione. 
Forse il terrore, non del tutto infondato, che il mio cervello avesse un limite, e che se ci facevo entrare le equazioni e il come risolverle, non ci sarebbe stato spazio per i versi di qualche poeta brillo morto un paio di secoli fa. 
Non parlo tanto della geometria, che mi perse già anni prima quando cercò di convincermi che il mondo è basato sul punto – approccio che mi sembrò alquanto presuntuoso – no, no, parlo proprio della matematica in genere e di tutta la sua figliolanza. Non faccio distinzioni, anche perché, si sarà ben compreso, non ne so fare. 
Il linguaggio della matematica, ecco, mi è ad un certo punto divenuto oscuro. Non capii mai la ragione per cui o e oppure non significassero la stessa cosa. In un compito delle superiori scrissi sempre oppure, per paura che la o si potesse confondere con lo 0, e mi fu segnato sempre e solo sempre come errore. A un certo momento uno avrebbe dovuto considerare l'eventualità di un equivoco nell'interpretazione da parte mia, ma, e me ne chiedo ancora la ragione, ciò non avvenne. 

Si evince quindi, dalle vicende sin qui narrate, che ho sempre vissuto con fierezza senza avvertire il bisogno di disturbare la matematica, e a sua discolpa devo dire che nemmeno lei ha mai disturbato me. 
Una vita senza matematica è possibile, ho continuato a ripetermi negli anni, si può andare avanti anche senza portarsi addosso questo pesante fardello numerico. In fondo – ho continuato il mio ragionamento - se mai ne avessi bisogno, posso sempre contare sulla calcolatrice; in fondo, quale catastrofe dovrà mai capitarmi perché mi si chieda di utilizzare, che ne so, l'algebra, o una parabola. Un'iperbole forse sì, ma lì poi è questione di carattere. 
Mentre di altre ignoranze mi vergogno, di questa ne faccio un fiore e me la metto all'occhiello, il mento alto, la bocca smorfiosa: non so contare, embè? Dovevo pur scegliermi un vezzo. 
E il vezzo c'è stato. Finché non è successo che dovevo fare due calcoli e ho – volutamente - non usato la calcolatrice. 


Per due calcoli intendo esattamente due calcoli, quei calcoli normali che le persone comuni fanno abbastanza spesso, più o meno ogni 31 giorni, e che consistono nel dividere a metà affitto e bollette. 
Per cui, si fa così, no? Unisci affitto e bollette. Li dividi a metà. 
No, un secondo. Metti in colonna affitto e bollette. Li sommi. Dividi a metà. 
No, aspetta. 
Ho provato. Ho riprovato. 
Ho scritto. Ho riscritto. 
Non convinta, ho riprovato e ho riscritto. 
Mi sono allontanata dal foglio. Ho guardato. 
Ho preso la calcolatrice. Ho riguardato il foglio. Ho cancellato

Non so se sia stato più l'orrore o la sorpresa a riportarmi in vita dopo un tale sforzo di concentrazione. Resta il fatto che, dopo un sussulto, e dopo aver cercato di occultare le prove della mia incapacità, ho iniziato ad appigliarmi alle più volgari scuse: “Ma non potevo, davvero io....io ero un'artista, non potevo studiare anche....no, davvero, il libro pesava troppo, e io...”. 
Mi sono arresa, ammutolita. 

Ho 27 anni e non mi ricordo più come si fanno le operazioni in colonna.

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