mercoledì 30 aprile 2014

Elogio dell'inabbinabile

Alle prese col contenuto del mio armadio.
Foto gentilmente scattata a tradimento da René Mt2.

Un altro armadio è possibile. 
Certo, non il mio. 
Ma quello di Koko Pi, del blog Ordinata Mente, non dubito che lo sia. Ogni volta che leggo un suo post penso a quanto è bella la varietà degli esseri umani, che permette a taluni di vivere in armonia con gli oggetti e i luoghi che li circondano. 
Oggi Koko Pi parla di armadi, per l'appunto. Di decluttering degli armadi. 
Decluttering, ovvero non solo mettere in ordine, ma disfarsi di tutto ciò che non serve. 
Ho provato a farlo un mese fa in cucina e in effetti ho scartato un sacco di cose – non so quanti esemplari di passaverdure ho potuto contare. Solo che le buste contenenti gli scarti giacciono ancora sul pavimento da allora. In attesa che si autoportino in cantina, credo. 
Ma mi è così difficile pensare che si possa alleggerire anche l'armadio. 
Il mio armadio è l'elogio dell'inabbinabile. Il mio armadio è come l'intero mio cervello fattosi stoffa. 



Il punto è che negli anni ho accumulato una serie di cose incredibili e strabilianti: 


1. Capi d'abbigliamento comprati da me in ere in cui il mio gusto era ancora lungi dal formarsi.
Esempio: una gonna di pizzo nero col bordo di spessissimo velluto bordeaux, dotata di fibbie che non si chiudono, sopra e sotto la quale non ho mai saputo cosa mettere. 

2. Capi d'abbigliamento comprati da una me adolescente, di gusto tuttavia accettabile e che mi vanno ancora. 
Quindi perché eliminarli, mi dico, se posso continuare ad usarli? Ho ste due gonne di lino ormai trasparenti comprate al mercato nel 2002, che ormai fanno quello che vogliono loro. Io non le metto nemmeno più. Ho provato a cacciarle via brutalmente, ma nulla, si ripropongono sempre. Non le posso più vedere. 

3. Capi d'abbigliamento regalati da parenti o amici il cui gusto si discosta alquanto dal mio. 
Esempio: di solito cose dai colori vistosamente acidi, ma annovero anche una spilla a forma di fiore leopardata. E chi mi conosce sa cosa penso del leopardato – che sta bene solo sui leopardi. 

4. Capi d'abbigliamento ereditati: lista senza fine, nella quale svettano 
  • bolerino a righe arcobaleno - per quando mi travestirò, finalmente, da Miominypony 
  • sottoveste lilla con prominente scollo a V e preziosi inserti in pizzo. Sexy all'incirca come il capo di cui sotto, ovvero
  • abito nero a margheritine, lungo fino ai piedi e largo quanto tutto il bilocale, che sto tenendo da parte per il giorno in cui imparerò a cucire – e ne farò un lenzuolo, probabilmente. 
  • gilet fuxia con bottoni dorati. Non so onestamente che uso potrei mai farne, ma è lì.

Gli abiti ereditati sono quelli di cui vado più orgogliosa, lo devo ammettere. 
Davvero, sorrido e gongolo quando ad un "Ma che carino questo vestitino a fiori" posso rispondere con un "L'ho raccattato da Zia Maria / dalla cugina dell'amica di mia sorella / dalla nipote della vicina di pianerottolo / l'ho barattato con due libri e una sciarpa / l'ho trovato"
Una delle mie gioie consiste proprio nel mettere assieme i vestiti più distanti tra loro, nel riuscire a creare il mio look della giornata grazie al contributo di persone sconosciute e capi provenienti dalle più disparate epoche e generazioni. 
Che poi se a un certo punto uno si vuole liberare di quella giacchetta a righine colori pastello decorata di pailettes io lo capisco, eh, è che qualcosa in me mi impedisce di riflettere e dirmi "Non la userai mai. Non ti permettere di portarla in casa." 
Dov'è mia sorella quando serve? L'unica persona al mondo il cui NO secco e perentorio è pura legge. Soprattutto se ti stai avvicinando quatta quatta all'ennesimo capo floreale. 



Il problema di base, però, è esistenziale. 
Io non sono a tinta unita. E abbinare tra loro le fantasie è un'arte sottile che richiede pazienza e tempo e la rabbia necessaria a rovesciare tutto il contenuto dell'armadio su letto e poltrona per cercare, nel marasma, qualcosa che non abbia, a sua volta, fiori pallini o righe. 
O che abbia, quantomeno, un'aria neutra. 
Ecco svelata la ragione per cui la poltrona affianco al letto non si vede mai, se non in giorni tersi, quando mi decido a spalare le nevi di abiti perenni che la ricoprono.


sabato 19 aprile 2014

"Alle luci bruciate e ai fiori, in febbraio" – mostra fotografica di Giulia Masci


Ricordo i tuoi polsi sottili sbucare come steli dalle maniche a sbuffo. 
Ricordo quelle mani da bambina, che nascondevano un segreto come si tiene tra le mani un pettirosso. 


Ho attraversato la casa dalle pareti stinte, sui muri gli aloni lasciati da vecchi quadri; sui mobili, che non mi sono mai sembrati così bassi, le riviste e i vecchi elenchi del telefono dalle pagine arricciate. 
Ho attraversato la casa dalle mattonelle ad arabeschi verdi e bianchi, dalla veranda sempre assolata, da cui una volta, se mi affacciavo, vedevo un gatto e le piante di limoni. 
Le cose che ti appartenevano sono rimaste dove me le aspettavo: le bottiglie di profumo che ti avevamo regalato, le nostre foto di quando eravamo bambini, le bomboniere nella credenza, di tutte le ricorrenze di tutti i nipoti.



Ogni cosa è muta. Il portagioie sul comò, sotto lo specchio opaco dalla cornice color ottone. Lo apro e mi accorgo che rivela una vita che non conoscevo, eppure che comprendo appieno: l'amore per le cose piccole, piccolissime, conservate con cura, al punto da avere timore di usarle, per non sciuparle. La collana di perle col gancetto rotto, una spilla a forma di chiave di violino. Un paio di orecchini di brillanti, a forma di fiore, che non ti ho mai visto indossare. Il talco, ancora chiuso nel suo barattolo – il talco è un balocco, è superfluo, lo si può solo guardare. 


Quel che amo di certi tipi di fotografie è la loro capacità di lasciarsi immaginare. Quel richiamo irresistibile a farsi esplorare. Allora accade che l'occhio si addentri e vaghi verso tutte le vite che si nascondono sotto la superficie. 

Ecco cosa mi è capitato con le fotografie di Giulia Masci: ho seguito la mia mente che si perdeva, appigliandosi ai pochi, sbiaditi frammenti di storie che mi stavano bisbigliando.


Un bianco e nero di una delicatezza disarmante. Ritratti dolci come lo sanno essere i ricordi. Solo che erano i ricordi degli altri, o i ricordi di nessuno. Erano ricordi immaginati, quelli che ti assalgono a volte, in una via, quando avverti le vite sprigionarsi dalle case.
Quelli che lievemente ricevi, mentre passeggi tra le scansie di un mercatino dell'usato, e lo sguardo si posa ora su un soprammobile in ceramica, ora su un baule spalancato. 
Quei piccoli dettagli appena appena nitidi, eppure così insinuanti nel farsi strada dagli occhi direttamente alla cassa toracica. Un merletto, dita che si intrecciano, il vento che sparpaglia i semi del soffione – istanti che appartengono ad un tempo che non esiste, che potrebbe essere sempre, potrebbe essere ovunque. 
Guardo le sue foto e, in silenzio, mi lascio afferrare. 


Le cornici stesse, una diversa dall'altra, sono un decoro, un orpello elegante, specie quelle più piccole, ovali. Mi sembrano amuleti, da tenere nella mano. 


Alle luci bruciate e ai fiori, in febbraio è la splendida mostra di foto di Giulia Masci – giovanissima, sorridentissima - inaugurata domenica 13 aprile al Cosmonauta (Forlì)
Le foto resteranno in esposizione fino a  domenica 27 aprile.



martedì 8 aprile 2014

Letture ottocentesche e ricordi dei primi anni 2000

Ordunque, il Club Chesterfield ha deliberato.
Chi segue le avventure dell'ormai notissimo Club Letterario per non letterati sa bene che, all'ultimo ritrovo, una nutrita schiera di esponenti aveva espresso un certo interesse a virare verso una differente tipologia di letture.
Ammiro comunque la nostra coerenza per esserci sciroppate, di seguito, 4 romanzi di Jane Austen (io 3 e mezzo, lo ammetto: al quindicesimo capitolo di Ragione e sentimento ho deciso di dedicare al libro solamente altri 20 minuti della mia vita, leggendo una parola si e 120 no alla fermata dell'autobus e comprendendo comunque alla perfezione quello che stava accadendo. Salvo chiedermi, ad un certo punto, chi fosse Lucy, dettaglio che ancora ignoro). Ci terrei a dire, a mia discolpa, che Orgoglio e pregiudizio ed Emma mi hanno appassionata e Northanger Abbey mi ha divertita, ragion per cui ritengo di aver colmato, anche con una certa solerzia, le mie lacune in materia austeniana.

Mercoledì scorso il gruppo si è riunito per confrontare le nuove proposte di lettura, armato di birre e salatini. I titoli proposti sono stati tanti e alcuni ci hanno subito solleticato. 
E non è una cosa incredibile, da far sgranare gli occhi per la gioia, sapere di avere di fronte una pila traballante di libri ancora da leggere? Avverto già la brama, la smania, che mi porterà - e in parte mi ha già portata - a vagare per le librerie come un segugio sulle tracce di un fagiano. Perché dovrò stanarli tutti.
Sapevamo di voler seguire un percorso un minimo coerente e di non voler capitombolare all'improvviso in mezzo al '900 senza sapere come ci eravamo arrivate. E così ci siamo create un itinerario, abbiamo iniziato a spianare la strada.



Il prossimo incontro, che si terrà il 16 aprile, ci vedrà alle prese con il racconto di Edgar Allan Poe "La caduta della casa degli Usher" - l'avevo detto che avevamo bisogno di un lieve cambio d'atmosfera. 
Chi volesse unirsi a distanza, non ha che da leggere. E per chi volesse unirsi dal vivo, le componenti del gruppo ci tengono a sottolineare che il Club è naturalmente aperto anche agli uomini e che no, non mangiamo nessuno - a meno che non vi presentiate sotto forma di torta salata.

La lettura successiva sarà invece Cime tempestose, che da qualcuno mi è già stata criticata (questo qualcuno è stato inserito solo ed esclusivamente per te, Lollo).
Il libro, un po' sgualcito, che mi attendeva nella mia libreria, reca impresso nella prima pagina, accanto alla mia firma immancabilmente nervosa, l'anno 2002, mentre nella prima facciata riporta la sottolineatura della parola  misantropo, il che mi fa dedurre che devo aver imparato il significato, e forse anche l'esistenza, di questa parola alla tarda età di 16 anni. Mi facevo più colta.
C'è un ricordo che mi lega indissolubilmente a questo libro e all'estate in cui aggiunsi una nuova parola al mio vocabolario.
All'epoca abitavo in un paesello circondato da dolci colline e dimenticato dagli autobus, in un condominio che sorgeva in posizione strategica, ovvero proprio alle spalle della fermata. Quel giorno dovevo andare  in città e questo significava che non potevo perdere l'autobus per nessuna ragione, a meno che aspettare altre due ore per il successivo non fosse, per me, un'idea così allettante (a giudicare da che ora arrivo alla fermata la mattina, si potrebbe supporre che per me lo sia. In effetti). 
Ebbene, me ne stavo lì seduta, perduta nella brughiera, i polpacci immersi nell'erica, capricciosa, volubile e altezzosa come Cathy ed era tale il rapimento da farmi dimenticare il calore che esalava dall'asfalto, lo sciabattare dei rari passanti, l'arrivo dell'au...
Credo che se non fosse stato per l'urlo siderale giuntomi dal balcone del terzo piano, ove mia madre stava stendendo i panni e nel frattempo osservando quella debosciata della sua primogenita, non solo io non avrei mai alzato la testa dal libro, ma l'autobus non si sarebbe mai fermato. Perché fu quel grido, che ancora, a distanza di anni, non so se tradurre con un "Nooormaaaa" o con un "Feeeermaaaa", a imporsi sull'avanzata del mezzo, a indurre quello stridore dei freni sull'asfalto, certo non la mia figura assente, pallida e magrolina che potevi benissimo confondere col palo.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...