lunedì 25 febbraio 2013

Un attacco di panico piccolo piccolo

Tremo. 
Il cuore bussa così forte contro la gabbia toracica che ho paura la possa spezzare, e nello sforzo possa esplodere anche lui. Lì accanto, i polmoni si ritirano. Il respiro rimane a gorgogliare a metà gola e mi sembra di aver inghiottito un rotolo di garza, che gratta e graffia al minimo movimento. 
Sudo. 
Gli occhi vorrebbero tanto non piangere, ma una sola, impavida lacrima riesce a sfuggire dall'occhio destro e a colarmi per tutta la guancia, arrivando al mento ancora bella gonfia. Una sola, però. 
Mi sono messa per un attimo al riparo, per vedere se riuscivo a respirare. Mi sono detta  “Norma calmati” almeno mille volte, e ora guardo il mio viso sconvolto allo specchio, bianco e strabico. 
È stato un mini attacco di panico. Piccolo piccolo, breve breve, niente di che. Mi ha sconquassato una buona parte degli organi interni, ma è passato, e io sono ancora viva. Ragiono di nuovo, ho smesso di tremare. 
Torno in ufficio e mi dico “Su, dai, fai quello che devi fare, non pensarci più”
“Va bene”, mi rispondo “ci provo”.


Il telefono è occupato. Ho composto il numero con una certa tenacia e ho poggiato subito la cornetta all'orecchio. Non mi sono fermata. Ma è occupato anche la seconda, la terza e la quarta volta che provo a richiamare. Quel tu-tu-tu di protesta mi calma. Si vede che non dovevo usare la mia voce, mi dico, peccato. Ma in realtà sono sollevata. 
Il telefono mi mette agitazione. Non sopporto fare telefonate alle persone che non conosco. Non lo sopporto nel senso che non lo riesco ad affrontare. Il mio corpo non ha la capacità di reagire nel modo giusto. Quando devo fare delle telefonate, arriva prima l’ansia e poi le parole. Anche solo all'idea, la gola, il cuore e tutto quello che ci sta nel mezzo si strozzano. 
Comincio a pensare: “E adesso? Come rispondo? Come mi presento? Saprò parlare in maniera formale? Saprò parlare lentamente? Saprò essere gentile ed educata?”. 
Gentile ed educata di solito lo sono e finora non mi è mai capitato che il telefono mi ringhiasse all'orecchio ancora prima di comporre il numero. Per cui, diciamo, eliminato il terrore iniziale del Come rispondo e Come mi presento, la telefonata dovrebbe scorrere più o meno liscia, complice il fatto che dall'altra parte qualcuno dovrebbe interagire con me. 

Quello che davvero mi getta nel terrore è la presenza di altre persone nella stanza dove dovrei telefonare. Comincio ad immaginarmi i loro pensieri, le loro reazioni: 

“Ma senti questa come parla!”
“Tentenna!” 
“Non sa dare informazioni” 
“Non è chiara” 
“Ma come si presenta?!” 
“Non è abbastanza sicura di sé”. 
No, non lo sono. Non lo sono mai. Non ho mai imparato ad esserlo. Vorrei e dovrei essere capo di me stessa, ma non ne sono capace. Il mio primo istinto sarebbe chiedere a qualcun’altro di fare la telefonata al posto mio. Ma delegare non è affrontare, delegare non è crescere. 

Una cosa che mi calma è rimandare. Sembra assurdo, perché rimandare dovrebbe accrescere la tensione, e invece, nel momento stesso in cui rimando l’azione che mi agita, mi sembra di aver cancellato dalla faccia della terra quell'accadimento così destabilizzante per me. Gli esami universitari li gestivo esattamente così: terrorizzata, arrivavo fin davanti la porta del professore, me la prendevo con lo stomaco che si ribaltava, con il respiro che mancava, finché l’ansia era così esasperante da farmi dire “Va bene, lo rimando alla prossima volta”. E, magicamente, tutti i miei malanni sparivano. La tranquillità prendeva immediato possesso di me. Tornavo lucida, pimpante, allegra. Sentivo di essermi finalmente tolta di dosso un peso. Ma il peso in realtà l’avevo solo nascosto, la calma era solo momentanea, falsata –  infatti l’università è lì, con la polvere sotto il tappeto. 


Per il momento, sono stata costretta dagli eventi a rimandare la telefonata. Sono quieta. L’ansia è lì, da qualche parte, che si stira le zampe.


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