Tra le mie paure, posso annoverare:
- fare telefonate (al primissimo posto in assoluto)
- essere giudicata
- le cavallette
- le bibite fredde
- i fraintendimenti
- parlare
- dare esami
- la soffitta adibita a stenditoio del condominio ove abito
- le scale mobili
- i rumori improvvisi
- i rumori di notte
(immaginatevi un coniglio e avrete un chiaro esempio della mia reazione alle ultime due voci in elenco)
Forse è folle, ma le analisi del sangue, invece, non mi fanno paura. Mi fanno simpatia.
Sarà che mi piacciono le sfide inutili, e arrivare in un luogo senza aver mangiato prima rientra a tutti gli effetti nella categoria, con me e il mio stomaco che ci facciamo coraggio a vicenda: lui che si stringe impavido, io che gli intimo, in un ultimo rantolo, “Ce la faremo, amico.”
Ma, come dire, le trovo quasi piacevoli.
Sono calamitata dai colori.
La luminosità onirica dello studio medico. La vivacità dei tappini delle provette.
La pelle pallidissima e le vie che vi scorrono sotto, così silenziose e così vive; le vene color verde fiume e il sangue nel tubicino, velocissimo, di un bel bordeaux pieno, di velluto.
Sono affascinata dai gesti di chi lavora, quando diventano abituali, quando donano sicurezza. Mi piace osservarli ed imparare un nuovo rituale, una convenzione, una regola. Seguo la mano che rende leggero l'ago, e la ammiro.
Soprattutto, le analisi del sangue mi fanno sorridere per i ricordi che portano con sé.
Non so se capitasse solo a me a causa del mio incarnato cadaverico, o se tutti i bambini siano sottoposti di routine ad una quantità immane di esami medici, ma rammento un'infanzia emocromaticamente molto attiva (anche ortotticamente, ma quella è un'altra storia).
Ricordo che le mattine in cui dovevo fare le analisi cominciavano presto e, siccome abitavo su una collinetta un po' dispersa, significava che cominciavano al buio.
Allora assonnata e affamata, me ne andavo con mio padre verso l'ospedale.
In macchina, si parlava di attualità: quante lucertole avevo acchiappato il giorno prima, le caratteristiche del pianeta Nettuno, episodi esilaranti tratti dal libro che stavo leggendo al momento, gli errori grammaticali nel compito della compagna di classe corretto a scuola e che mi avevano fatto scompisciare, eccetera eccetera.
Eccezion fatta per il pianeta Nettuno (non me ne voglia, è che a un certo punto la mia mente si è ristretta), si tratta esattamente delle stesse cose di cui parlerei adesso.
L'ospedale si ergeva nella foschia e nel silenzio, coi nomi dei padiglioni che, per me bambina, potevano essere solo località lontane (la selvaggia isola Vallisneri, ad esempio).
Anche allora guardavo con occhio ammirato il mio sangue scorrere nel tubicino – una parte di me che lesta scivolava mia, non appena ne scorgeva l'occasione.
Sveglia da ormai un'ora, stoica, aspettavo in realtà un unico momento: quello in cui, finite le analisi, mio padre avrebbe detto “Andiamo a fare colazione?”.
Perché io, forse, non lo avrei detto mai – oh, ti rimbambivo con vita, hobby e gossip dei merli in giardino, ma se ti dovevo far partecipe di un mio desiderio non aprivo bocca.
Ancora di più aspettavo il momento in cui mi avrebbe chiesto
“Cornetto e cappuccino, va bene?”.
E io avrei risposto sì.
E avrei mangiato il mio cornetto e bevuto il mio cappuccino schiumoso.
E avrei fatto un po' fatica, ma, oh, avevo fame.
E mai una volta, mai una, che mi riuscisse di dirgli l'atroce verità.
Il cappuccino non mi piaceva. Non lo ingollavo proprio.
Ma lo bevevo lo stesso.
Forse è per questo che ancora adesso rido, quando esco dall'ospedale per andare a fare colazione.