lunedì 29 giugno 2020

Estate



Stavo beatamente scrivendo le mie memorie sul diario, quando a un certo punto ho deciso di venire a dare un'occhiata allo stato del mio blog e - oh, sorpresa, stupore, giubilo! - ho notato che esiste ancora. 
Ho scelto di non badare al fatto che la mia foto rappresentativa ad angolo risalga al 2013, pfui!, queste sono bazzecole. Anche perché quello di cui tra poco mi metterò a scrivere è nascosto ancora più indietro nel tempo. 





Dal 21 di giugno di quest'anno ho una sola domanda piantata nella testa: 
Ma perché da bambina e adolescente odiavo l'estate? 

Sul serio, la odiavo proprio. Ho le prove scritte, in più di un diario. 
Mi chiedo: ma cosa non mi sconfinferava in quei tre mesi di puro, libero, languidissimo ozio? 
Astio puerile e insensato, dedico a te questa carrellata di foto scelte dalla serata del solsizio d'estate (non è vero, non le ho nemmeno scelte: erano le uniche non sfocate). 




In tutta sincerità, non credo che davvero la odiassi, l'estate, credo solo che dovrei cercare meglio nella memoria. Avanzare al buio, scostare la tenda, sbirciare. 

Se entrassi, in punta di piedi, mi vedrei con indosso una sorta di tuta alla marinara, che adoravo, bianca e blu, con dei laccetti di corda a chiudere la maglietta e i calzoncini corti. Mi ero anche fatta un autoritratto, con addosso il venerato outfit. 
Mi vedrei arrampicata su una balla di fieno, o a cavalcioni di un ramo a rimpinzarmi di more di gelso, le dita e la bocca impiastricciate di un intenso color inchiostro. 
Mi vedrei tutta intenta ad acchiappare lucertole – missione in cui il più delle volte fallivo – o in vorace e concentratissima lettura di un libro. 

Stavamo in un posticino piccolo e sperduto, c'era chi organizzava cacce al tesoro in un giardino che pareva un bosco, bambini impavidi che sapevano andare sullo skateboard, ma io mi ci stendevo sopra di pancia, non ho imparato mai. 





L'estate significava soprattutto ritornare nella città che avevamo lasciato. 

Mi ricordo il sole attraverso le veneziane, la casa dei nonni silenziosa come un grande animale addormentato; tra le due e le cinque del pomeriggio il mondo si nascondeva dalla canicola, e io prendevo possesso del tavolo, col diario e i libri e i colori da bambina, col diario e il walkman e le cuffie da ragazzetta. 
Mi ricordo delle chiacchiedere con i cugini, mia cugina che stendeva ad asciugare i costumi e io la guardavo con un'ammirazione infinita per le storie che mi raccontava, mi sembrava sempre un passo avanti a me, eppure avevamo la stessa età. 
Mi ricordo quell'anno che ci impuntammo per non andare solo a trovare i parenti, e allora visitammo Pompei e la Reggia di Caserta. Ci sono foto variopinte in cui io, mio fratello e mia sorella indossiamo i colori dei tucani, dei pappagalli, inconsapevolmente abbinati tra noi. Io ero lunghissima, mio fratello aveva la pelle dorata, mia sorella il faccino vispo di chi la sa lunga. 




Potrei restare qui a guardare per ore, per mesi, fino a settembre. 
Ma torno indietro, piano piano, senza disturbare la danza lenta e liquida dei ricordi. 
Avverto il vociare di tutte le estati passate, ed è qualcosa che mi acquieta, assieme al tintinnare dei cucchiaini nelle tazze di caffè, al via vai degli amici e dei parenti, a quel "Ma come siete cresciuti!" che sempre accompagnava ogni nostra apparizione. 
Tutto questo mi appartiene. 

Riaccosto la tenda, mi faccio da parte. 
Nessuno mi ha sentita.





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