mercoledì 23 marzo 2016

Zen spicciolo per persone per niente zen

https://www.instagram.com/nuvolesulsoffitto/

Stamattina, io e Nervosismo Atavico (che, guarda caso, ha le mie stesse iniziali) siamo usciti per la nostra solita passeggiata per andare a prendere l'autobus. Questa passeggiata assolve alla triplice funzione di:
  • sgranchire le gambe
  • ascoltare estasiati il canto di un certo numero di volatili urbani
  • acquietare le mente
Peccato che l'ultimo punto ce lo scordiamo sempre.


Di solito accade così: suona la sveglia e noi, in all'incirca tre nanosecondi, abbiamo già elencato tutte le cose da fare in giornata, quelle che abbiamo fatto male il giorno prima, quelle che faremo male il giorno dopo. In più, abbiamo già provato, copione in mano, tutti i dialoghi che si svolgeranno nelle successive 24 ore, non sia mai ci si scordi qualche battuta fondamentale.

Siamo così pronti per la nostra bella passeggiata rilassante.

Ogni passo un pensiero. Ogni refolo di vento una paranoia. Arriviamo al lavoro un pochino tesi, ma tanto ci siamo abituati così.


Poi, un bel giorno, io e Nervosismo iniziamo a leggere dappertutto cose come “Vivi il momento!”, “Sii presente a te stesso!”, “Scopri come diventare una persona migliore grazie alla mindfulness!”, “Meditazione oggi: 5 minuti al giorno e addio stress – solo per occidentali”.
Il primo pensiero è stato rilanciare a nostra volta con un corso “Come diventare persone agitate e con la smania del controllo in sole 6 lezioni, guru con esperienza trentennale”. Poi ci siamo arresi. Quasi subito e per pochissimo tempo.


Quindi noi, che siamo zen come il tubetto del dentifricio strizzato male, ci siamo detti che, in fondo in fondo, provare a fare una passeggiata senza ammorbarsi troppo di pensieri poteva essere una cosa accettabile. Persino gradevole. Concentrarsi solo sui propri passi, sulla camminata. Fare spazio, fare silenzio.

Un passo, un pensiero – no, aspetta un attimo, adesso chi se ne importa di quella mail? Senti, c'è il merlo che canta. Un passo, una paranoia – no, ma ti pare, non ti odia, stai tranquilla! Ascolta il rombo del motore. Oh, guarda, un gallo! Questo clacson ha un suono melodioso. Tho? C'è l'annuncio di un imbianchino. In questa aiuola bistrattata stanno però crescendo le viole.

E così fino a che non sono arrivata alla fermata dell'autobus e quando il nonno vigile mi ha salutata, non ho capito cosa mi ha detto, ma gli ho prontamente risposto “Non riuscivo a capire che uccello era”.


Era una ghiandaia.

giovedì 17 marzo 2016

I libri dei ricordi: Il mistero di Agnes Cecilia

Ho avuto un'illuminazione mentre ero sull'autobus: dedicare una rubrica ai libri dell'infanzia, quelli che hanno segnato la nostra* vita in maniera dirompente e irrimediabile. 
Di questa illuminazione devo ovviamente ringraziare Marina di interno storie: è stato dopo aver letto del suo primo libro che mi è venuto il desiderio irrefrenabile di ripescare il mio. Mettersi a sfogliare anche gli altri libri che se ne stavano lì accanto, con un misto di felicità, commozione e sacralità, è stato inevitabile e il risultato è che ora ho voglia di rileggerli tutti. 

*Siccome mi conosco e so bene di essere costante per un massimo di 12 minuti, ho deciso di coinvolgere anche voi in questa rubrica: ogni tot (non ho ancora deciso a quanto debba corrispondere questo tot, siate clementi) tra le nuvole sbucherà un ospite col suo libro dell'infanzia prediletto

Oggi comincio io. Per l'occasione recupero un mio vecchio post e lo rammendo un pochino, che, come sempre quando rileggo le vecchie cose, vedo solo gli errori. 

"Il mistero di Agnes Cecilia" quasi 20 anni dopo




Ho incontrato Nora per la prima volta 19 anni fa e ci siamo subito capite, quasi identificate. La complicità è nata dall'assonanza dei nomi e da una certa vicinanza caratteriale ben espressa da quell'hobby in cui entrambe eccelliamo: rimuginare. 
Era il 1997. All'epoca io ero una bambinetta pallida e incline al silenzio e alla malinconia. Nora era una ragazzina di carta, alle prese con una storia affascinante e misteriosa. Uso il termine misteriosa perché la Norma di allora impazziva per i misteri. Ed è proprio grazie a questa parola che ha conosciuto Nora. 

"Il mistero di Agnes Cecilia", della scrittrice svedese Maria Gripe, era il mio libro preferito quando andavo alle medie. Nell'arco di quei tre anni l'ho letto 5 volte, l'ho sottolineato e studiato a fondo, copiandone frasi intere sui miei quadernetti, l'ho immaginato e rivissuto nella mente, fino ad imprimerlo nella memoria. 
Nora ha 14 anni quando si trasferisce nel nuovo appartamento con la sua famiglia adottiva: zio, zia, cugino e cane. Non appena entra nella sua nuova stanza, si sente a casa, sente di aver trovato un posto tutto suo. Ed è proprio qui che, quando si trova da sola, iniziano ad accadere cose che non si riesce a spiegare: avverte dei passi nella stanza accanto e il tempo pare restare in sospeso. Nel ristrutturare l'appartamento, trovano dei vecchi oggetti, di cui Nora si fa custode. Con curiosità comincerà ad indagare su ciò che si cela dietro queste piccole cose ritrovate ed incontrerà chi saprà aiutarla a ricostruire una storia d'altri tempi, eppure così vicina a lei. 
Nora è una persona pensosa, immersa nelle sue paranoie, mangiata viva dai sensi di colpa, sottile osservatrice degli atteggiamenti degli altri, che traduce sempre in un qualcosa di negativo nei suoi confronti. Chissà se a 11 anni mi rendevo conto della somiglianza, che mi è apparsa ora così lampante, tra me e quel personaggio. 




A distanza di anni, e dopo averlo riletto anche di recente, "Il mistero di Agnes Cecilia" rimane per me un libro dalla trama preziosa, un portagioie che raccoglie e svela immagini che rilucono: i passi nella stanza rotonda, le ombre degli uccelli sul muro, la sveglia che ticchetta su davanzale. La bambola, gli oggetti trovati nei ripostigli nella casa nuova. Una specie di sogno, scoprire le vite degli altri attraverso le loro cose. Il secchiellino azzurro pieno di sassolini, la borsetta di perline, il braccialetto con il cristallo di rocca. Sono tutti ancora qui, come se li avessi davanti in questo momento. La ragazza che corre nel giardino aprendo l'ombrellino giallo. 
Ogni scena è pervasa da una luce delicata, in bilico tra la fantasia e la realtà, ogni descrizione è viva, guizzante, concreta. Si potrebbe andare alla ricerca di quella casa, visitare quelle stanze, pretendere di trovare quegli oggetti e ricostruirne il percorso che li ha portati fin lì. 
Credo che gran parte del mio immaginario sia stato assecondato ed arricchito dalle sue pagine, che molte mie riflessioni sulle persone, sulla labilità del tempo, sulla vita degli oggetti, abbiano preso il via a partire da questa vicenda. 

Mentre scrivo, ascolto la musica di un carillon, malinconica e lievemente inquietante, e la casa si immerge nel buio, perché io accendo la luce solo quando inizio a non distinguere più i tasti. L'atmosfera è perfetta per sfogliare questo libro ancora una volta. La meraviglia e l'incanto sono gli stessi di allora.


martedì 8 marzo 2016

Ribellione




Ci sono giornate in cui avverto in maniera particolare e profonda la necessità di circondarmi di cose belle. E per circondarmi intendo sommergermi. 

Ho un'abitudine che mi porto appresso da quando ero una giovane mammoletta: raccattare in giro per casa tutti gli oggetti che mi piacciono e mi fanno stare bene e spargermeli intorno, anche se non li devo usare. Soprattutto se non li devo usare. 
Sono libri e quaderni, colori e vecchie lettere, foto e cartoline, cose di carta, sgualcite, con le orecchie, piegate male. Piene di vita – la loro, non la mia. Vedermeli attorno mi fa stare bene. È come se li respirassi: le loro storie vibrano, sanno farsi sentire senza urlare, belle di una bellezza semplice e stropicciata. 

Alle volte, questo desiderio è incontenibile. In questi giorni è addirittura pressante, una specie di smania, uno sfarfallamento nel petto - una migrazione di farfalle che turbina nella cassa toracica. Forse per contrapporsi al brutto, al lamentevole, al meschino che si insinua dappertutto, forse perché per natura sono fatta così. 


È una dura lotta non lasciarsi contaminare dal veleno, 
mantenersi, in qualche modo, puri.

Mi sono fatta una promessa, di quelle solenni: qualsiasi cosa mi possa accadere, brutta, tragica, irrisolvibile, non mi lascerò inacidire dentro. Non getterò la mia bile sugli altri. Non sbufferò lamentele a fior di labbra per ogni motivo o per nessun motivo affatto. Non spargerò cattiveria. 
Oh, io sono permalosissima e mi arrabbio per cose minuscole e a volte borbotto e tengo il broncio e ho sbalzi d'umore che l'umore stesso ne resta sorpreso e ci sono un mucchio di cose che non mi piacciono per niente e mi fanno saltare i nervi, questo per dire che non sono di certo immune alla lamentela. 
Ma un episodio fastidioso potrà mai farmi dimenticare tutto il resto? Potrà mai venirmi in mente di giudicare con astio cose, persone, situazioni - che le conosca o meno? Potrò mai sentirmi così indignata dentro da non riconoscere quando una cosa è vera o falsa?

Ultimamente mi capita di affrontare l'argomento molto spesso: il perché della lamentazione fine a se stessa. Voglio dire, capisco le giornate storte, i momenti bui, l'odio per l'umanità che ti prende, che ne so, quando sei fermo alle strisce pedonali da un secolo e per gli automobilisti tu continui ad essere una pianta in vaso. Ma lamentarsi e basta? Lamentarsi per lamentarsi? 
Soprattutto, e mi arrovellerò fino alla morte per comprenderlo, non capisco che bisogno ci sia di affossare gli entusiasmi. Di distruggere le cose belle. Di gettare fango sulle felicità – minuscole o giganclopiche – degli altri. È come se si dovesse stare bene solo nel fango tutti assieme: guai a mettere fuori la testa per respirare, guai anche solo tentare di uscirne. Ci pensano le manate degli altri a ributtarti di sotto.

Me lo ripeto mille volte: non leggere mai i commenti alle notizie che ti viene l'orticaria, non rispondere a chi offende perché ci perdi soltanto tempo, non lasciarti contagiare dal nervosismo assassino di certi luoghi affollati, poi ti agiti, stai male, ti viene un infarto, eccetera eccetera eccetera. Ma è difficile, perché la cattiveria, l'ignoranza arrogante, la violenza verbale mi colpiscono in maniera profonda. 

Ho smania di cose belle. Ho la volontà di credere che superino di gran lunga qualsiasi veleno, qualsiasi bassezza. A volte la realtà mi prende a schiaffi così intensi e brucianti che mi ripeto “Norma, datti una svegliata, per cortesia. Sei un essere umano adulto, quando impari come vanno le cose?”


E invece no. Io non voglio imparare. 
È la mia forma di ribellione, l'unica che mi sia davvero possibile. 
L'ingenuità è una forza, nessuno potrà convincermi del contrario.

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