Sono una di quelle persone che considera la borsa un surrogato della casa.
Solo, una casa poco stabile.
In genere, dopo un mese-due, le sue fondamenta cominciano a cedere, non potendo più reggere il contenuto a cui quotidianamente la sottopongo. E mi tocca trovarmene un'altra.
Questo nonostante lo sforzo – nobilissimo - di mia sorella, che mi ha regalato una borsa piccola solo per provare il gusto di ordinarmi:
"Non ti permettere di metterci dentro libri e acqua"
Che è un po' come tagliarmi i viveri.
Per cui se mi domandassero "Cosa tieni dentro la borsa?" l'unica risposta davvero esaustiva sarebbe "Tutto".
Tutto.
Inversamente proporzionale al contenuto del succitato oggetto in pelle deve essere invece il contenuto della mia testa, a quanto pare. Per lo meno nella zona (che immagino esista) che si occupa della Coscienza del corpo e della sua presenza nello spazio circostante.
Perché altrimenti avrei memoria di dove, tre settimane fa, all'aperto, in una serata di festa, tra una chiacchiera e l'altra, io abbia, per un momento, appoggiato la mia borsa.
E invece questa memoria mi manca.
La borsa pure.
Era blu.
Aveva la tracolla un po' screpolata, è vero, ma resisteva impavida da un numero considerevole di mesi ai miei maltrattamenti, alle penne senza tappo e al peso di Infinite Jest.
Era comoda.
Senza fronzoli, senza targhe, senza nomi, si adattava con naturalezza a qualsiasi abbigliamento. L'unico orpello che si era concessa era la cerniera.
Dentro di lei c'era una vita irrequieta, una macchina fotografica di appena 20 giorni, un'agenda in cui raccoglievo tutte le note di tutti i miei giorni e tenevo il conto dei libri letti quest'anno, un diario iniziato da poco, i documenti, le chiavi di casa, una matita per occhi spuntata...l'elenco continua, ed è un po' doloroso ripeterlo.
"Sono stata vittima di smarrimento" recita la mia denuncia e non sapevo si dicesse davvero così, ma devo ammettere che per una volta il linguaggio burocratico rende l'idea.
Un'altra parte del mio cervello, quella preposta alla Facoltà di rendersi conto delle situazioni, specie se spiacevoli, fa sì che io non rifletta veramente sul danno che questo smarrimento mi ha causato, fingendo che quella borsa non sia mai esistita.
Ma a volte ci penso.
Che qualcuno sta mettendo le mani sulla mia macchina fotografica, che non era un oggetto: era un regalo. Ed è come se questo qualcuno stesse mettendo le mani sulla mia faccia mentre lo scartavo, sulle mie dita attente a non rovinare nemmeno un centimetro della carta che lo ricopriva, sui bigliettini che avevo appena finito di leggere, sulla faccia della persona che avevo di fronte, sul calice di vino che stavo dolcemente sorbendo.
A volte ci penso, che qualcuno ha sfiorato, anche solo per buttarlo nel bidone, il mio diario iniziato da poco. Che possa averlo aperto, sbirciato, rovinato. E non dico che possa averlo letto, non tanto perché ho attuato un sistema di difesa da sguardi indiscreti che si chiama "la mia scrittura", ma perché deduco che se qualcuno è spinto dal desiderio di impossessarsi di una borsa non sua, non è per mettersi a leggere un diario.
O forse mi sbaglio. Forse qualcuno davvero l'ha letto. Ed è raccapricciante anche solo l'idea.
Notare il perfetto abbinamento della nuova agenda col nuovo cellulare |
Devo dire, però, che in tutto ciò - dove per tutto ciò intendo: rifare i documenti, cercare in giro sostituti più o meno validi degli oggetti che non si possiedono più, dormire la notte nonostante l'ansia etc etc etc - dei lati positivi ci sono:
- Ho provato, per una mezza giornata, l'ebbra leggerezza di vivere senza nessun documento. Ma proprio nessuno, nemmeno l'abbonamento dell'autobus.
- Ho recuperato un cellulare che puoi spegnere prima di andare a dormire e la sua sveglia funziona lo stesso.
- Ho finalmente una foto decente sulla carta d'identità. Il che, se consideriamo che mi è stata fatta dopo una notte insonne e che il mio stato emotivo-facciale ricordava un po' l'alga stracciata sul bagnasciuga, ha del miracoloso.