Il 7 aprile 1994, Norma se ne tornò a casa con il suo primo diario. Non era certo un diario qualunque: aveva il lucchetto. Era fatto apposta per tenerci i segreti. Ora che il lucchetto non ce l'ha più, i segreti sono volati tutti via.
Con il suo primo diario, Norma scoprì che le piaceva scrivere. Mettere una parola dopo l'altra e veder comparire un pensierino. Un pensierino dopo l'altro, e vedere prendere forma una storia, di una pagina sola, e con dentro almeno un animale parlante.
Scoprì che i diari, se glielo chiedi, veramente ti rispondono. Sotto il titolo inequivocabile di “Il diario risponde” comparivano consigli di buon senso del tipo “Cara Norma, non ti arrabbiare, si aggiusterà tutto, non essere triste, lo farai domani”, insomma, la voce dei genitori buttata giù con la mia calligrafia delle elementari.
Scoprì che nei diari ci puoi appiccicare le cose e ritrovarle lì, ingiallite e stropicciate, 22 anni dopo.
Quello fu il primo di una lunghissima serie di diari e l'inizio di un'abitudine che non ho più abbandonato. Non li ho mai contati e non li ho mai messi uno sopra l'altro per vedere se finalmente mi hanno raggiunto in altezza, ma un giorno lo farò.
Ho sempre trovato rassicurante uscirmene di casa
con un quadernetto nella borsa.
Non sia mai mi venga in mente qualcosa di importantissimo che poi mi dimentico. Del resto, ci si dimentica di così tante cose. Il diario è una storia in divenire. Una storia intermittente, che a volte si interrompe e non ti spiegherà mai cosa è accaduto dopo. È una collezione di appunti veloci che poi non riesco a decifrare, di liste della spesa, di liste di colori, di umori, di desideri, è un monito, una scena. È un mondo – il proprio e di chiunque ci capiti in mezzo - che ci si porta appresso. Un altro, lo stesso, un mondo minuscolo dentro ad un mondo più grande.
Perché lo faccia, me lo chiedo spesso. È un vizio e un vezzo.
Forse non lo faccio tanto per scrivere, quanto per capire. Forse ho bisogno di ricordarmi chi sono. A otto anni come a dodici, a diciassette e a ventitré, adesso. Ricordarmi che ci sono.
Penso al brivido che mi pervade quando trovo vecchie lettere, fogli sparsi di tanti anni fa, appartenuti a persone che nemmeno conosco, alla curiosità che non riesco a frenare quando il mio sguardo cade su un pezzettino di carta scritto a penna. Penso alla mia necessità impellente di acciuffarlo e leggerlo, scoprire cosa dice.
C'è una storia, ovunque ci sia uno sparuto gruppetto di parole, e io la devo leggere.
Lo faccio per ricordare.
Ricordare chi siamo.
Ricordare che ci siamo.