martedì 17 maggio 2016
Sedici anni
La prima cosa che ho pensato stamattina appena aperti gli occhi è stata “Cavolo, ma io non ho sedici anni”. Cosa che so con certezza da 5090 giorni, ma che evidentemente non avevo ancora compreso in maniera così profonda.
A 16 anni spalancavo gli occhi alle 6 del mattino, prima della sveglia. Per me, bastava che albeggiasse – sul muro accanto al mio letto comparivano file di perline color ambra, tremolanti e ordinate. Il sole sorgeva sul paesello, salendo piano dietro alle colline, infilandosi di sbieco attraverso le fessure della tapparelle. Dall'alto del mio letto a castello, mi stiracchiavo e saltavo giù.
Ricordo quella primavera, la ricordo bene.
Fu in quel periodo che imparai a creare uno stile nel vestirmi. Oh, certo, era uno stile del tutto discutibile, a pensarci adesso, ma era mio. Quella mattina di 14 anni fa, saltai pimpante giù dal letto perché la mia mente iperattiva aveva ideato un nuovo abbinamento: pantaloni color verde salvia, larghi; canottiera lavorata a maglia in tessuto pesante viola acceso; cardigan larghissimo e lunghissimo grigio mélange (altrimenti detto il maglione di mio nonno). Non potete comprendere il mio dispiacere nel dirvi che purtroppo non ci sono foto che documentino l'evento.
Con versatilità e noncuranza, alternavo uno stile bohemienne (tradurre: qualsiasi cosa tu stia indossando, buttaci sopra una sciarpa) a uno più dark (vediamo, quante cose nere riusciamo a mettere l'una sull'altra oggi?).
A 16 anni bastava questo. Bastava inventarmi un nuovo abbinamento da sfoggiare in classe. Quella mattina – la mattina della canottiera in mai identificato tessuto pesante – l'aria era fresca e pulita, mentre me ne stavo seduta sulle scale d'ingresso della scuola, in attesa della campanella.
Non mi ero mai considerata un'adolescente felice fino a stamattina, quando è suonata la sveglia e mi sono detta “Cavoli, ma io non ho sedici anni”. E l'ho pensato avvertendo una mancanza. Mi chiedevo dove fosse finita, quella ragazzetta. Per anni l'avevo dipinta come un essere abominevole, chiuso e scontroso, arrabbiato e triste. Forse si era offesa? Forse per questo se n'era andata? E dove?
Poi mi sono ricordata.
Ero buffa, buffa come lo sono tutti i ragazzi a quell'età. Ero curiosa e piena di meraviglia e di vita e di idee. Avevo amiche splendide, che sono mie amiche tutt'ora (sentite un dolce suono di violini, ragazze?).
Un pensiero minuscolo bastava a svoltarmi la giornata – Cosa mi metto oggi? Cosa leggo? Che canzone ascolto? Cosa mi avrà scritto Maria Vittoria sul nostro diario condiviso?
Aprivo gli occhi alle sei. Bastava che albeggiasse.
Finalmente, mi sono ricordata.
martedì 10 maggio 2016
10 cose da fare dopo aver finito di guardare Downton Abbey
Ormai erano come dei parenti, per me.
Sì, certo, i classici parenti ricchi di cui scopri l'esistenza solo dopo che sono spirati, lasciandoti all'improvviso in eredità una tenuta con 3000 ettari di parco nelle campagne dello Yorkshire. Ma insomma, pur sempre parenti.
E ora che non posso più condividere con loro gioie e dolori, cene e pettegolezzi, quello stile di vita mi manca e non ho più nessuno che mi porti la colazione a letto. Un trauma.
Ecco perché ho stilato la lista delle dieci imperdibili cose da fare dopo aver salutato per l'ultima volta la famiglia Crawley ed essersi lasciati alle spalle il portone di Downton Abbey e Thomas in livrea.
1. Sedersi alla toeletta e suonare il campanello affinché Anna venga a spazzolarti i capelli e prepararti per la notte.
2. Scoprire, all'improvviso e con orrore, di non avere nessuna toeletta, nessuna cameriera personale e soprattutto di non essere Lady Mary. Rendersi conto, in realtà, di non possedere neppure una spazzola.
3. Nonostante (o forse proprio A causa di) questo smacco del destino, invitare le amiche per un té delle cinque.
4. Con le suddette amiche, o anche da soli davanti allo specchio, allenare il proprio wit, così che, una volta in società, si possano lanciare frecciatine in perfetto stile Lady Violet.
4b. Dopo aver detto la battutina, ricordarsi di restare per un momento con quell'adorabile sorrisino sul volto, osservando compiaciuti la folla pietrificata dal fascino irresistibile della tua ironia.
5. Organizzare una vacanza nei luoghi di Downton Abbey, stile pellegrinaggio.
6. Organizzare una cena in stile Downton Abbey. Va da sé che l'etichetta richiede di invitare a restare come ospite, per giorni e giorni, qualunque persona più o meno benestante che si trovi a passare dalle parti di casa anche solo per fare un saluto.
7. Organizzare una festa a tema Downton Abbey.
Ho già deciso che io e la mia amica Stefania ci vestiremo così:
8. Nei momenti di malinconia, ascoltare a ripetizione la sigla di apertura della serie, fino a che questa non si insinuerà così profondamente nel cervello da diventare la colonna sonora di qualsiasi momento della propria giornata.
9. Dedicarsi a lavori di casa mai fatti prima, ma di indubbia utilità, come la pratica della stiratura dei quotidiani.
10. Iniziare una nuova serie.
10b. Convincere in tutti i modi Stefania che no, non è ancora il momento di Games of Thrones.
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giovedì 5 maggio 2016
Dialoghi con l'ansia
Una pièce teatrale di un certo livello
Primo atto
Interno giorno, salotto luminoso, libri e quaderni sparsi sul tavolo, musichetta malinconica ma dolce di sottofondo. Pentolino con l'acqua sul fuoco, tè e miele già pronti per essere degustati. Fuori, brioso cinguettar di uccellini.
Ansia “Wow, che pace.”
Norma (sorridendo, sguardo innocente e fiducioso) “Visto che bello? Ho un intero pomeriggio tutto per me. Mi posso rilassare.”
Ansia “Non hai nulla di importante da fare, immagino.”
Norma “Ci penso domani. Oggi non mi va.”
Ansia “Ne sei sicura?”
Norma “Sicurissima.”
Ansia “Quindi la tua priorità del giorno è finire Downton Abbey.”
Norma “Sì, ormai mi manca poco e...”
Ansia “Certo che ne hai di ambizioni.”
Silenzio. L'acqua bolle. Norma si alza a preparare il tè.
Ansia “È inutile che fingi di ignorarmi”
Bustina di tè. Acqua bollente. Miele. Cucchiaino.
Ansia “Dai, cos'è questa pace interiore? Non ci crede nessuno.”
Norma prende il tè. Torna al tavolo. Accende il computer.
Buio.
Giorno successivo, camera da letto.
Norma si sveglia col respiro mozzato.
Fine primo atto.
Secondo atto
Interno giorno. Lo stesso salotto del primo atto, ma stavolta regnano confusione e disordine. Non c'è musica e gli uccellini manco cantano più.
Norma (visibilmente alterata) “...non mi puoi sempre dire cosa devo fare, in continuazione! Fai questo, fai quello, e non ti dimenticare quest'altro e stai attenta perché sicuramente sbaglierai qualcosa, e controlla, e ripeti, e dillo meglio e fai...Basta! Basta, sul serio, basta!”
Ansia “Lo faccio solo per il tuo bene.”
Norma “Il mio bene? Il mio bene è sentire il tuo alito sul collo tutto il giorno? Il mio bene è non riuscire a respirare, avere il cuore a mille, non essere in grado nemmeno di parlare, è questo il mio bene? Non riesco a fare nulla quando ci sei tu!”
Ansia “Non riesci a fare nulla nemmeno quando non ci sono.”
Cala un silenzio tombale.
Ansia “È inutile che mi guardi con odio, è la verità.”
Norma “Tu vuoi morire male.”
Ansia “Non sai quello che dici, datti una calmata.”
Norma (urlando) “Tu non mi dici datti una calmata, va bene?! Tu non mi dici un bel niente!” Colluttazione. Ancora colluttazione. Molta colluttazione.
Buio.
Interno notte. La tavola è apparecchiata come per una cena romantica: candele, fiori, piatti e calici da vino. Musica di sottofondo.
Norma “Mi dispiace per oggi. Davvero, non so cosa mi è preso...”
Ansia “Non mi devi chiedere scusa. L'importante è comprendersi sempre.”
Norma (sorridendo un po' imbarazzata) “Facciamo un brindisi?”
Ansia (alzando il calice) “Ad una sana e serena convivenza!”
Norma “Alla nostra ultima cena insieme.”
Ansia (con sguardo penetrante) “Sei sempre così melodrammatica.”
Norma “Sarà colpa del nome che porto.”
Ansia “Rimaniamo amiche?"
Norma “Sai bene che non succede mai.”
Sorrisi.
Sipario.
Ricominciare daccapo
lunedì 2 maggio 2016
Instamare
Questa è la storia di un gruppo di persone che si sono conosciute grazie al magico mondo di Instagram e dei blog. Questa è una storia che passa dal virtuale al reale - con tutte le conseguenti riflessioni implicite di cosa sia reale davvero.
In tutta sincerità, se devo dire come sia avvenuto il primo contatto tra di noi, non me lo ricordo nemmeno. Ma avete presente quel momento in cui senti che di una persona ti puoi fidare? Quando, a pelle, avverti che c'è tanto di bello da condividere? Ecco, noi l'abbiamo sentito e grazie alla temerarietà di Francesca e Valeria è nato #Instamare2016, un fine settimana a Rimini insieme, per conoscersi, per avvicinarsi, per curiosità.
E per scoprire, alla fine, che cercavamo tutte la stessa cosa: tranquillità e pace. Chissà la prossima volta dove andremo. Perché naturalmente sappiamo già che ci sarà una prossima volta.
Rimini, 16 aprile 2016
Se guardo il mare che va e viene, va e viene, mi ipnotizzo.L'acqua ancora è troppo fredda per fare il bagno, ma la spiaggia ha il suo rituale al quale devi cedere, almeno da marzo fino a ottobre:
togliere le scarpe
portarsele in giro ciondolanti
abbandonarle il prima possibile
arrotolare i jeans e fingere che le caviglie non siano troppo bianche e i piedi non troppo infreddoliti
affondarli nella sabbia tiepida
respirare a fondo
guardare - il mare, il cielo, i gabbiani, i passanti. Guardare.
È così da sempre, nei secoli dei secoli. Non ci si può fare nulla.
La spiaggia ci aspettava. Appena arrivate, appena conosciute, cosa fai, in una città di mare, in un giorno di sole? Cerchi la spiaggia.
Piacere, Norma. Piacere, Francesca. Valeria, Giovanna. Polly. Annalù.
Io sono un po' in imbarazzo. Ma dai, stai tranquilla! Com'è andato il viaggio? Bene, ma il regionale era pieno. Passiamo prima un momento in albergo? Certo, poi andiamo al mare, non è lontano.
Ci siamo accoccolate sulla sabbia, col mare di fronte. C'era vento e la sabbia finiva dappertutto - se provo a svuotare la mia borsa, sono certa che ce ne sia ancora, in qualche tasca interna, insieme alle carte delle caramelle.
Il vento, oltre alla sabbia, si portava a spasso le nostre parole. Erano tante.
Non è difficile immaginarselo, vero?
Chissà perché avevo così tanta paura di far sentire la mia voce, prima di partire. Chissà perché temevo non sarebbe stato così semplice, raccontarsi. E invece abbiamo condiviso piccole gioie e piccole paure, consigli sui libri da leggere e sulle serie da guardare, camera e bagno, la pizza e i passatelli. Abbiamo giocato con la piccola Annalù, che si nascondeva dietro le sedie al ristorante e faceva "Buh", con quella vocina minuscola e gli occhi spalancati. Abbiamo rifatto assieme il letto a castello, quello di sopra, perché in quello di sotto non ci so dormire e perché non sono poi così precisa nel fare un letto come si deve. Abbiamo fatto una foto con i piedi a mollo nell'acqua gelida e non è una cosa così banale, per me. Mi concedo a dosi molto piccole. Abbiamo chiacchierato con addosso quella rilassatezza un po' molle dei giorni di vacanza, quando sai che nessun impegno ti attende, guardando distrattamente i passanti, raccontandoci di noi con parole morbide e rotonde. Abbiamo lasciato la corazza a casa.
Sono passate due settimane, da quei giorni azzurri azzurri, trascorsi con un gruppetto di perfette sconosciute, che dopo un paio di minuti già mi pareva di conoscere da una vita.
Ne scrivo col sorriso e con una sensazione di immensa serenità nel petto – come la risacca, va e viene, va e viene, e solo sentirne il suono in lontananza riappacifica col mondo - perché è questo che mi hanno lasciato: dolcezza.
Oltre ad una girandola. E ad un francobollo. E a delle lettere che solo tra amiche ci si può scambiare. E ad un quadernetto piccolo, che non guasta mai. E a due cartoline bellissime. E a un fiore gentile, che attende il suo destino. E ad una barchetta fatta con un metodo che mi sono dimenticata, ma che sta aspettando di essere appesa da qualche parte.
Magari ad una collana, per portarmela addosso, per veleggiare leggera.
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