La regola "Scrivere almeno per un'ora tutti i giorni" è da me seguita con la stessa costanza che dedico all'altro unico impegno extra lavorativo serio che mi sono presa: "Fare un po' (è sempre molto rassicurante la vaghezza dell'un po') di addominali tutti i giorni". In un pomeriggio particolarmente ispirato ne faccio 12, il giorno dopo ho i crampi e decido con soddisfazione che il mio corpo si è allenato abbastanza e che i prossimi 12 li posso fare il mese venturo. I miei confronti con la penna sono altrettanto fulminei e il risultato è che non arrivo mai a nessun risultato. Se non avvertissi dentro, proprio dietro ai miei riluttanti addominali, l'urgenza della scrittura, non starei certo qui a crucciarmi, e ritornerei al mio bell'hobby pratico e concreto, che potrebbe essere il tiro al piattello o il punto croce. Ma qualcosa ha fatto sorgere in me, alla saggia età di 7 anni e tre quarti, l'idea che io dovessi scrivere, per diletto e per necessità. Ora che la necessità è stata servita e che mi ritrovo a scrivere per lavoro (niente di eclatante, di solito parlo di olive), è la parte del diletto ad avvertire maggiormente la mancanza delle mie attenzioni.
"Scrivi un'ora - almeno - tutti i giorni" sta scritto a pagina 40 del mio diario di terza superiore.
"Scrivere un'ora tutti i giorni!!!" esclamo a diciott'anni, tra un delirio filosofico e l'altro.
"Norma, per favore, scrivi! Basta un'ora!" mi imploro raggiunta la soglia dei ventidue, persa tra i flutti del mio naufragio universitario. Devo ammettere che è stato piuttosto sconvolgente sfogliare i miei vecchi diari e scoprire che in tutti quanti avevo scritto la stessa cosa. Un certo orgoglio, invece, si è affacciato sul mio volto quando mi sono accorta che la promessa non l'avevo mai mantenuta. Vecchia briccona! mi sono detta, dandomi una gomitata, non cambi proprio mai! Eh, no. In effetti no.
Il desiderio di mettermi a scrivere mi coglie sempre in maniera improvvisa e spropositata, ma o non è il momento giusto o semplicemente le mie mani preferiscono starsene belle comode nelle loro tasche. Il diario è sempre lì, ma raccoglie solo appunti veloci, una parola o due per ricordarmi che guardando quell'albero ho immaginato quel mondo. E finisce lì.
Sono una di quelle persone che, se potesse, scriverebbe camminando. Il pensiero segue il passo ed è molto più arioso, molto più leggero della parola scritta. Segue un filo, non incontra ostacoli, non si incarta mai.
Oppure sono i luoghi o gli istanti velocissimi a dirmi di scrivere. Mi capita di avvertire il pulsare di una storia, di appropriarmene completamente, sentire che la comprendo e che potrei raccontarla all'universo, e poi girarmi un secondo e perderla.
Se si potesse in qualche modo registrare quello che, sommessamente, ti dicono i passanti, o le case in una via, il tappeto umido di foglie nel cortile della scuola, il signore zoppicante che ti chiede indicazioni. Se gli attimi potessero parlare e dirti loro stessi come vorrebbero essere descritti, o se l'impulso dal cervello alla mano fosse più veloce. Se, più di ogni altra cosa, non ci fossero la paura, l'inibizione, il perfezionismo sterile a imporsi tra la sensazione e l'azione...
Ogni volta che mi prende l'impulso di scrivere, alla fine, di solito, mi metto a leggere. E il risultato, in genere, mi convince di più.
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